giovedì 20 settembre 2012

Ralph Goings e le apparenze che ingannano.

Ralph Goings è un artista californiano che fa parte della corrente americana del fotorealismo, nata tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio anni Settanta sulla scia della Pop Art. A differenza della critica al consumismo della società moderna promossa dalle opere della Pop Art, l'iperrealismo si propone di rappresentare il mondo così com'è, senza passare attraverso l'interpretazione dell'artista. La particolarità di Goings, comune a tutti gli esponenti di questo filone (da Duane Hanson a Richard Estes), sta nell'utilizzare la fotografia per ottenere informazioni visive da ricreare in un dipinto che sembra fotografico (e spesso anche più accurato e "più reale del reale"). La tecnica impiegata è la pittura a olio o ad acrilico, che fissa su tela o su carta la scena catturata dalla macchina fotografica e la ingrandisce esponenzialmente. Il metodo di lavoro di Goings consiste nel partire da alcune centinaia di scatti del soggetto stabilito, per poi poter scegliere la migliore da riportare sulla tela. Segue quindi un disegno molto dettagliato a matita su cui comincia l'opera di pittura, partendo da uno sfondo scuro. Un dipinto, per essere terminato, può richiedere anche diversi mesi di lavoro. Il risultato finale è un dipinto leggermente verniciato, ma che conserva la traccia del pennello in misura tale da rivelare che è stato dipinto a mano. La macchina fotografica, infatti, è solo un mezzo che registra la realtà e fornisce informazioni, le quali vanno poi tradotte in quella che lo stesso artista definisce "informazione dipinta [...], che è più importante della realtà o dell'immagine fotografica". Lo scopo delle opere di Goings è di proporre una "visione imparziale" della realtà, eliminando l'intermediazione dell'artista tra il lavoro e il pubblico, come dichiara egli stesso

"My intention was always to remove myself from the work, so that there was nothing no intermediary between the viewer and the subject of the picture." 

I suoi soggetti preferiti erano, appunto, oggetti comuni e scene della vita quotidiana della classe media americana: ciambelle e caffè, distributori di tovaglioli, saliere, bottiglie di ketchup e maionese, posacenere, camioncini degli hot dog, interni di bar... Uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Goings sta proprio nella resa estremamente accurata e minuziosa delle superfici e dei riflessi sugli oggetti in vetro e metallo, che rendono i dipinti estremamente realistici. 

Il pensiero dell'artista può essere sintetizzato dalle sue stesse parole:

« Nel 1963 volevo iniziare nuovamente a dipingere ma decisi di che non avrei più dipinto immagini astratte. Decisi di spingermi invece il più possibile all'esatto opposto. Compresi che proiettare e quindi disegnare i soggetti della fotografia, invece che copiarla a mano libera, avrebbe avuto un effetto realistico e impressionante. Copiare una fotografia era considerata una cosa discutibile. Andava contro tutto ciò che appresi alla scuola d'arte... Molte persone si arrabbiavano per ciò che stavo facendo e dicevano: "Non è arte, non potrà mai essere arte". Questo mi diede lo spunto di perseverare nel mio intento, poiché mi piaceva fare qualcosa che faceva arrabbiare la gente... Mi divertivo un sacco. »



giovedì 7 giugno 2012

Il realismo metaforico di Vladimir Kush.



Vladimir Kush nasce nella periferia di Mosca il 29 marzo 1965. Fin da bambino, Vladimir si avvicina all'arte completando gli schizzi del padre, uno scienziato appassionato di disegno, seduto sulle sue ginocchia. Dall'età di 7 anni, frequenta contemporaneamente due scuole: la mattina la scuola regolare, nel pomeriggio i corsi d'arte in una scuola sperimentale che gli consente la massima libertà artistica. Negli anni dell'adolescenza, Vladimir Kush è un fervente ammiratore di Cézanne. Oltre allo studio del pittore francese, egli sperimenta diversi stili, tra cui l'impressionismo, finchè nel 1980 scopre il surrealismo di Salvador Dalì. Raggiunta la maggiore età, viene chiamato a due anni di servizio militare, durante i quali, grazie alla lungimiranza del comandante della sua unità, passa dalla fanteria all'incarico di pittore di grandi tele e di murales. I suoi paesaggi includono quindi degli elementi militari, ma si delineano già note romantiche e fantasiose. Nei suoi dipinti, che iniziano a riscuotere successo internazionale dall'inizio degli anni '90, Vladimir Kush racconta i suoi sogni di ragazzo, con grandi spazi aperti che si estendono oltre il bosco innevato della sua infanzia, infinite praterie, l'immenso oceano... La sua arte è stata apprezzata inizialmente nel continente asiatico e, in seguito, si è diffusa in America, tanto che nel 2001 Vladimir ha aperto la sua prima galleria nelle isole Hawaii: la Kush Fine Art a Lahaina. Nel 2005 è stato inoltre pubblicato Journey to the Edge of Time, un racconto di fantascienza di 100 pagine basato proprio sui dipinti di Vladimir Kush, una sorta di diario in forma di dialogo tra eroi che intrecciano commenti sulle stesse illustrazioni. Un'odissea di buoni e cattivi con creature misteriose e echi della mitologia classica.

Vladimir Kush, Sunrise by the ocean
Ognuno dei suoi dipinti coniuga una tecnica pittorica precisa, dettagliata e delicata con una serie di simboli evocativi, caratteristiche che si mantengono inalteratie anche nelle opere scultoree. Il suo scopo è quello di riflettere il mondo nello specchio della metafora, che viene animata dai sentimenti e dal subconscio dello stesso artista. La metafora riflette senza sforzo la complessità della vita moderna, con le sue ambiguità e contraddizioni. Lo scopo dell'artista è di trovare una metafora che esprima ogni aspetto della vita reale, in modo da scuotere l'osservatore con l'inaspettato. I colori sono luminosi e vivaci e concorrono a creare le illusioni dipinte sulla tela: una foglia che in realtà si rivela una montagna attraverso cui scorre un fiume che sfocia nel mare; un enorme uovo il cui tuorlo si trasforma in un caldo sole arancione al tramonto; la scultura di una mela tagliata a metà che si trasforma in una farfalla dalle ali spiegate...

Le sue opere che fondono gli elementi in un mix di sogno e realtà, mi ricordano da vicino il surrealismo di Magritte, che con l'accuratissima tecnica del trompe l'oeil mostrava oggetti e situazioni assurde, in modo da sconvolgere lo spettatore. Quando Vladimir Kush parla della sua arte, però, sostituisce l'etichetta di surrealista che i critici d'arte gli hanno attribuito con quella di pittore metaforico realista. Per sintetizzare al meglio l'operato di Vladimir Kush e il suo credo, calzano a pennello le parole di Albert Einstein:

"L'immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l'evoluzione."


Vladimir Kush, Butterfly Apple
Vladimir Kush, Ocean sprout



lunedì 21 maggio 2012

La libertà creativa di Alberto Martini.

Alberto Martini, Autoritratto. 1911
 "Solo i veri grandi artisti non invecchiano, perchè sono capaci di rinnovarsi e inventare nuove forme, nuovi colori, invenzioni genuine"

Alberto Martini nasce a Oderzo (Treviso) il 24 novembre 1876. Fin da bambino, dimostra una notevole predilezione per la grafica, anche se si cimenta con moltissime tecniche, dalla pittura ad olio alla matita grassa, dal pastello su carta alla litografia. Fin dalle prime esperienze, Martini dichiara il suo stile grottesco e fantasioso, ispirato ai grandi incisori tedeschi del Cinquecento, in particolare Albrecht Dürer. Nel corso degli anni realizza moltissimi disegni, spesso raggruppati in cicli tematici, come "La Danza macabra". Martini viene quasi sempre ricordato per le illustrazioni dei grandi classici, a partire dal "Morgante Maggiore" di Luigi Pucci per giungere al poema di Alessandro Tassoni "La secchia rapita", passandro per i racconti di Edgar Allan Poe. Nel primo decennio del Novecento, si appassiona al teatro e realizza una serie di opere ispirate ai testi teatrali più famosi, in particolare Macbeth e Amleto di Shakespeare. Nel 1912 realizza una serie di opere a pastello che hanno in comune il tema della donna-farfalla.

 A partire dalla fine degli anni Venti, la critica italiana ha mantenuto un atteggiamento indifferente (quando non apertamente ostile) nei confronti dell'opera dell'artista, di cui non viene compresa e apprezzata l'originalità e l'autonomia creativa. Il suo non appartenere a un genere o un movimento ben definito è stata forse la causa del suo eclissarsi dalla memoria collettiva. Egli stesso dichiara nella sua autobiografia "Vita d'artista" (1939-1940) di non ammettere etichette, prefendo mantenere la sua libertà espressiva:

"Volta a volta sono simbolico, romantico, macabro.
Fui e sono a volte verista, a volte surrealista, come tutti i veri artisti del passato".

Un artista oggi dimenticato che, alla luce dei lavori originali e particolarissimi che ci ha trasmesso, merita di essere rivalutato e conosciuto.

Alberto Martini, Farfalla crepuscolare. 1912-1913
 Alberto Martini, Donna farfalla civetta1907




lunedì 7 maggio 2012

Gli "Incubi Celesti" di Nicoletta Ceccoli

Nicoletta Ceccoli, Princess and the Prey.
Nicoletta Ceccoli, nata nel 1973 nella Repubblica di San Marino, è una delle esponenti più dotate del surrealismo pop. La sua carriera artistica nasce come illustratrice professionista di libri per bambini, ma presto si impone anche nel mondo dell'arte e del collezionismo privato. Nel 2001 le è stato conferito il Premio Andersen-Baia delle Favole quale migliore illustratore dell'anno. Alla fine del 2010, ha esposto alla Dorothy Circus Gallery con una serie di opere ispirate ad Alice in Wonderland. Questa mostra, intititolata "Incubi Celesti", racconta l’addio all’infanzia e segna il passaggio all’età adulta. Le protagoniste dei dipinti, non più bambine ma non ancora donne, si ritrovano in una dimensione senza tempo, dove non c'è più spazio per i giocattoli, che diventano soprammobili che fluttuano nelle stanze vuote della composizione. Le sue opere sono una trasposizione su tela degli incubi dei bambini, popolati da mostri e creature immaginarie, che attirano lo spettatore adulto in un universo che non gli appartiene più ma del quale, in fondo, desidera  riappropriarsi.

Nei suoi dipinti color pastello Nicoletta Ceccoli racconta di un mondo magico e surreale, popolato da creature fantastiche e personaggi onirici. Le sue illustrazioni, un po' cupe ma comunque estremamente graziose, narrano di una dimensione dove tutto è sospeso, ovattato e maliconico. In un'intervista del 2009, Nicoletta dichiara di essere affezionata alla malinconia che pervade le sue opere ispirate ai libri di fiabe.

"I i miei lavori parlano di femminilità, fragilità, paura di crescere. [...] Queste scene lontane dal reale mi servono a dare un senso più universale e fuori dal tempo al racconto. Metto in scena la solitudine, la paura dell’abbandono, la perdita dell’innocenza che tutte abbiamo provato o proviamo. La malinconia ha a che fare col fermarsi a riflettere di sè. Sono affezionata alla mia malinconia. Non siamo obbligati a ridere sempre, come in televisione."

Nicoletta Ceccoli, Dolceamara.
I colori sono diafani e delicati, con largo uso del beige e del cipria, dell'avorio e dei colori pastello, che si amalgamano in una tessitura omogenea e lieve. La tecnica pittorica è decisamente raffinata, precisa e di qualità eccellente. Una caratteristica che emerge prepotente in tutte le opere è il silenzio, quasi che i rumori possano rovinare il precario equilibrio di questo mondo incantato.

Le opere di Nicoletta Ceccoli non si riferiscono a nessun teso in particolare, ma sono delle storie aperte che descrivono qualcosa che deve ancora succedere, con un senso di inquieta attesa. Le protagoniste dei suoi quadri sono delle bamboline dalla pelle di porcellana, delle fatine candidamente inquietanti che esprimono solitudine e fragilità, ma allo stesso tempo follia e graziosa crudeltà. Questi personaggi raccontano una storia misteriosa e sono intimamente legati alla sua autrice, che dichiara in un'intervista a Bizzarrocinema: "Le sento come dei miei alter ego: come loro, dentro di me non mi sento ancora pronta a crescere".

Dopo aver visto queste visioni eteree ed essersi immersi in questo mondo incantato, non può non venire voglia che di ritornare a sognare, come i bambini.

Nicoletta Ceccoli, Castello di cuori.
Nicoletta Ceccoli, Prova a prendermi.



martedì 24 aprile 2012

L'arte delle ombre di Tim Noble e Sue Webster

Tim Noble e Sue Webster sono una coppia di artisti britannici che lavorano come un duo e che, negli anni '90, hanno rivoluzionato il concetto di installazione artistica attraverso un modo di esprimersi estremamente particolare. Nel 2009 hanno ottenuto una laurea honoris causa alla Nottingham Trent University, per il loro contributo all'arte contemporanea britannica. Il loro lavoro mostra senza abbellimenti il volto della nostra società del consumismo e degli eccessi. Oltre a questo aspetto critico, nei loro lavori emerge la fusione degli opposti: maschio e femmina, cultura alta e cultura popolare, artigianato e spazzatura.
 
Le loro opere sono esposte nelle gallerie e nei musei più importanti del mondo, dal Denver Museum of Contemporary Art, al Rockfeller Plaza di New York fino alla National Portait Gallery di Londra. Essenzialmente, le loro opere principali possono essere divise in "Shadow works" (letteralmente "lavori di ombre") e "Light Works" ("lavori di luce")I due aspetti sono però connessi tra di loro come due lati dello stesso concetto, il lato luminoso e il lato oscuro. Questa interconnessione esprime le due diverse personalità presenti in ciascuno di noi, come sottolinea Sue Webster in un'intervista del 2007:



"We kept them both going side by side. There are two sides to the work; the shiny side and the dark side. That kind of reflects the two personalities within us."
("Li abbiamo fatti procedere parallelamente. Ci sono due lati del lavoro; quello luminoso e quello oscuro. Essi rappresentano le due diverse personalità che coesistono dentro di noi")

 Dirty White Trash (with Gulls), 1998
Le loro "Sculture di luce" riprendono alcuni dei simboli più noti della cultura pop inglese e americana e li rappresentano mediante luci al neon e incisioni, insistendo sulla contrapposizione odio/amore e richiamando i luoghi più celebri costellati da insegne luminose: Piccadilly Circus, Las Vegas e Times Square. Se questi lavori hanno un che di già visto, lo stesso non si può dire per le "Sculture d'ombra".

La prima cosa che colpisce un visitatore a contatto con queste installazioni è il mucchio di materiali eterogenei accatastati in maniera apparentemente casuale sul pavimento, dove lamiere, animali imbalsamati e immondizia costituiscono un assemblaggio curioso. In un secondo tempo, si rimane colpiti dall'ombra, che tutto d'un tratto dà un significato e un valore diversi all'intera scultura, che rivela una chiave di lettura prima nascosta. Queste composizioni informi, infatti, si trasformano in accurati e dettagliati autoritratti degli stessi artisti, proiettati come ombre sul muro retrostante grazie a una sapiente e studiata illuminazione. Attraverso le loro opere, Tim Noble e Sue Webster ci costringono a guardare quella spazzatura con occhi diversi, facendoci cambiare la percezione che ne abbiamo avuto al primo impatto, quando vi avevamo visto un semplice mucchio di lattine, cartoni di succo, barattoli e sacchetti vuoti di patatine.

Il primo lavoro di questo tipo, Miss Understood and Mr. Meanor, risale al 1997 e nasce dall'assemblaggio dell'immondizia degli stessi artisti. Il lavoro, che mostrava le teste impalate degli autori, venne purtroppo distrutto da un incendio nel 2004. Attraverso le loro "Sculture d'ombra", gli artisti riescono a fondere la componente astratta degli assemblaggi, che risultano apparentemente caotici, con una rappresentazione precisa e nitida, riscontrabile nelle ombre proiettate. Il secondo lavoro di questo genere, Dirty White Trash (with Gulls), è di un anno successivo e costituisce una tipologia particolare di autoritratto. Grazie a una singola fonte di luce che illumina ad arte la pila di immondizia, i rifiuti di sei mesi raccolti per la casa e sparsi apparentemente a casaccio sul pavimento si trasformano nella silhouette dei due artisti seduti schiena contro schiena, intenti a godersi un bicchiere di vino e una sigaretta. Nel dittico He/She compaiono le ombre di una figura maschile in piedi e una figura femminile accucciata, intenti ad espletare i propri bisogni fisiologici.

Dark Stuff, 2008
Un lavoro più recente che mi ha colpita molto è Dark Stuff, del 2008, che per quanto abbia degli aspetti macabri conserva una certa dose di forza evocativa. Gli artisti si ispirano per quest'opera alle collezioni del British Museum di Londra e propongono un'installazione realizzata con quasi 200 animali mummificati che, proiettata sul muro, mostra la silhouette delle teste dei due artisti impalate su dei bastoni appuntiti. In questo lavoro ci sono una serie di riferimenti al mondo dell'antico Egitto e in particolare alla pratica della mummificazione, che era molto diffusa anche per gli animali. Qui, come in altre opere, si può facilmente ritrovare un riferimento al mondo greco e al contesto del mito antico, che vengono utilizzati come materiale per far riflettere, fondendo il  sacro e il profano. Nelle opere di Tim Noble e Sue Webster, niente è come sembra e si può trovare il linguaggio della pubblicità mischiato al mito greco, combinati in una maniera innovativa che spesso sfida la nozione di buon gusto.

Questa particolare trasformazione da forme astratte a forme riconoscibili, messa in atto attraverso il rapporto tra la scultura e la sua ombra, rimanda all'idea di percezione che ognuno ha del mondo che lo circonda e ai significati che vi attribuisce. Nonostante l'originalità del lavoro dei due artisti, si può individuare un legame con la psicologia percettiva e con forme, linee e colori dell'astrattismo. Oltre a questo, rimane fondamentale l'apporto che la musica punk-rock ha avuto e continua ad avere nella loro visione del mondo.

Che li si ritenga geniali, irriverenti, di cattivo gusto o estremamente disgustosi, non si può negare che abbiano trovato un modo originale di esprimere le loro idee. Ed è proprio il caso di dirlo: "La spazzatura di un uomo può costituire il tesoro di un altro".
 
He/She (Diptyic), 2004





venerdì 20 aprile 2012

Lo psichedelico mondo di Alice visto da Adrian Piper

Adrian Piper è un'artista americana, che da più di vent'anni si occupa di arte concettuale, di performance e di filosofia. Le sue opere sono conosciute e stimate nel panorama artistico internazionale e sono esposte nei più importanti musei del mondo, da Chicago a Parigi, da New York a Los Angeles.
Sia dal punto di vista artistico che da quello filosofico, Adrian Piper ha a cuore il problema della percezione ed è proprio questo, secondo me, l'aspetto più interessante del suo lavoro. Se le sue opere più famose sono espressione di misura e di un ricercato minimalismo, questa definizione non calza minimamente per il trittico intitolato Alice in Wonderland, formato dai dipinti Alice Down the Rabbit Hole, The Mad Hatter's Tea Party e Alice and the Pack of Cards.

Adrian Piper; 
Alice Down the Rabbit Hole
1966
Questi curiosi esperimenti, che di misurato hanno ben poco, vennero scoperti da Robert del Principe ed esposti per la prima volta a Milano nel 2002 nella mostra "Adrian Piper Over the Edge: LSD Paintings and Drawings 1965-1967", che racconta una fase creativa particolare dell'artista. La caratteristica di queste opere, realizzate da Adrian Piper quando aveva circa 18 anni, è il fatto che vennero dipinte sotto l'effetto di LSD. L'accostamento tra il meraviglioso mondo di Alice e il mondo della droga psichedelica risulta decisamente azzeccato se si considera che negli anni '60 l'espressione "Chasing the White Rabbit" (letteralmente "segui il Coniglio Bianco") venne usata come slang per indicare l'assumere LSD (questo modo di dire è stato definitivamente consolidato grazie alla canzone dei Jefferson Airplaine "White Rabbit" del 1967). Non stupisce che nel pieno degli anni '60 Alice divenga la rappresentazione della psichedelia, visto e considerato il fatto che le sue vicende possono essere viste come un viaggio mentale in un mondo fantastico popolato da funghi magici e da un bruco gigante alle prese con un sempre fumante narghilè. Come la bambina dalla fervida fantasia vive un'avventura in un universo personalissimo creato da lei, Adrian Piper indaga il mondo di Alice attraverso l'LSD, che le permette di vedere le cose in modo diverso e di trasferire le sue percezioni sulla tela. L'arte psichedelica, al pari di Alice, diventa quindi la chiave per esplorare il labile confine  tra realtà e percezione, tra sensato e nonsense.
Adrian Piper; 
Alice and the Pack of Cards
1966


Adrian Piper; 
The Mad Hatter's Tea Party, 
1966
In questo trittico caratterizzato dai colori psichedelici e in forte contrasto che si attorcigliano in spirali digradanti, è facile vedere un universo alterato, reso brillante dagli stupefacenti e liberato dal concetto convenzionale di percezione. In Alice in Wonderland mi pare di trovare una notevole corrispondenza con il mondo della op art (optical art) degli anni '60, che gioca con le forme geometriche e il colore per creare un'illusione ottica di movimento.  Le geometrie ripetute e disposte in maniera strategica danno, infatti, lo stesso senso di instabilità  percettiva. Nella scelta personale dei colori, sembra quasi di individuare un'eco di quella libertà cromatica che aveva caratterizzato il movimento espressionista di inizio 1900, che si fonde qui con la ricerca di un'estetica acida e surreale, che avvicina queste opere alle copertine degli album di musica psichedelica molto in voga in questi anni.

Se devo essere sincera, non conoscevo Adrian Piper finchè non sono stata al Mart di Rovereto per vedere la (bellissima) mostra Alice in Wonderland - che tra parentesi consiglio a tutti di visitare perchè ne vale davvero la pena. Passeggiando per le sale, tra le opere che illustrano a loro modo il meraviglioso mondo di Alice, sono rimasta estremamente colpita da questi tre piccoli lavori, che spiccano come fari in mezzo agli altri: provare per credere.

mercoledì 18 aprile 2012

Benvenuti!

Ciao a tutti e benvenuti. 
Era da un po' che mi ronzava in testa quest'idea di aprire un blog tutto mio, dove condividere con chi ha voglia di leggermi le mie opinioni e le mie reazioni in merito all'arte contemporanea. Oggi, dopo un'interessante conferenza sulle professioni del web, mi sono detta che tutto sommato poteva essere un'esperienza costruttiva. Perciò, eccomi qui!
Premetto immediatamente che per arte CONTEMPORANEA intendo tutto ciò che è avvenuto in campo artistico a partire da Paul Cézanne, ovvero dalla metà dell'Ottocento circa in poi. Quello che c'è prima lo considero arte moderna.
L'idea di scrivere un blog che spiegi l'arte contemporanea secondo me mi è venuta dopo aver sentito l'ennesima signora di mezz'età che, di fronte alle opere esposte in una mostra, si dichiarava perplessa per la mancanza di una spiegazione. In effetti, mi è capitato più volte di sentire persone (anche giovani) che lamentano l'assenza di indicazioni riguardo al proprio lavoro da parte degli stessi artisti che, a mio avviso, spesso utilizzano la scusa del "vedici tu quello che vuoi vedere" per la paura di risultare meno interessanti. Visto che negli anni di studio mi sono resa conto che le opere d'arte si apprezzano molto di più una volta capite, ho pensato che potevo provare a dare il mio (seppur limitato) contributo a questa materia vista ancora con sospetto e spesso incompresa. 
Prima di cominciare, voglio mettere in chiaro che non sono un'esperta di arte contemporanea, seppur mi sia laureata poche settimane fa proprio in questa materia, con una tesi sul "primitivismo" di Carlo Carrà (1915-1916). Le opinioni che troverete in questo mio blog sono frutto di una mia riflessione personale e sicuramente passibili di critiche. Se avete un'opinione diversa dalla mia, commentate: sono contenta di discutere con chiunque, nel pieno rispetto reciproco.